L’epica del western americano non può essere né raccontata né analizzata senza passare per il nome di John Ford, forse il più altisonante della produzione cinematografica del genere ed uno dei cineasti che più in assoluto incarnano il cinema classico statunitense. Non è un caso che sia proprio lui, interpretato da David Lynch, che il giovane alter ego di Spielberg incontra nel finale del bellissimo The Fablemans (2022) ad incarnare il contatto del giovane regista con mondo dei grandi cineasti del passato.
Con questo articolo vorrei provare oggi attraverso l’analisi di L’uomo che uccise Liberty Valance (1962), una delle pellicole più importanti e note del regista, a fornire una possibile lettura del ruolo mitologico che l’epoca ed il genere western hanno assunto nella cultura occidentale e, soprattutto, statunitense. Questa breve disamina non è ovviamente da intendersi come l’analisi oggettiva del ruolo di un intero genere cinematografico in un certo periodo storico, ma più come una riflessione sul valore del genere western nella cultura statunitense dello scorso secolo così spesso banalizzato dalle nuove generazioni e, magari, riuscire a fornire delle chiavi di lettura interessanti per chi non si è mai avvicinato a questo tipo di pellicola.

Nel corso di questo breve scritto farò riferimento a diversi film, cercando però di ridurre al minimo gli spoiler e spiegare soltanto i punti necessari in modo che il tutto risulti leggibile per chiunque, che si conoscano o meno i film, e in modo da non rovinare l’esperienza a chi ha intenzione di recuperare in futuro una o più delle pellicole citate.
L’epica di John Ford, scrive Franco Ferrini nel suo saggio dedicato al regista, è l’epica del west come luogo delle opposizioni. Secondo il critico, la stessa identità dei cittadini degli Stati Uniti d’America sarebbe fondata sull’opposizione rispetto a ciò che non sono.
“I primi Americani cercarono di arginare il complesso di colpa della fuga e della separazione dal corpo della madre patria rimanendo il più possibile figli devoti: Inglesi, Francesi, Spagnoli, in una parola Europei. Ma tale fittizio equilibrio psichico e culturale andò sempre più in crisi, a mano a mano che una ondata dietro l'altra di schiavi e di immigranti complicavano il quadro dell'appartenenza razziale. Quale poteva essere la risposta alla domanda fatale: che cos'è un americano?”
È proprio sulla pesante mancanza di radici culturali e su questa fragile identità di pellegrini e liberi esploratori che si fonda la mitologia statunitense novecentesca, trovando la sua perfetta rappresentazione cinematografica nella figura dell’uomo che fonda una civiltà nelle desolate e sconfinate lande del West. L’analogia tra questo tipo di storie, l’epica del romanzo americano ottocentesco alla Melville e la narrazione calvinista sull’affermazione di sé è chiara: l’americano è colui che costruisce e che si costruisce ed è colui che abbandona casa (che sia questa l’Europa, la propria città, o la casa dei genitori) per cercare fortuna in terre a lui sconosciute. Se ci si riflette, in effetti, la poetica del primo Ford, fondata sul racconto dell’eroe che crea una nuova civiltà e che, citando le parole di Sergio Leone, “quando guarda fuori dalla finestra guarda l’immenso futuro che ha davanti”, è simbolo nient’altro che di questo genere di narrazioni redentive e dell’ottimismo americano tipico degli anni in cui questi film sono stati prodotti.
Il mito imbastito da Ford è quello dell’uomo americano che, allontanatosi dalla terra di origine, porta la civilizzazione verso l’ovest. Iconica da questo punto di vista è l’immagine del pistolero che galoppa verso il sole al tramonto. La lotta che i cowboy, i pistoleri e i militari del western fordiano combattono (nei film antecedenti al 1956) è una lotta per portare civiltà dove c’è solo il selvaggio, ovvero portare cultura dove c’è solo natura. Franco Ferrini individua, infatti, diverse opposizioni che strutturano e nutrono l’epica del cinema di Ford: “giardino/deserto; civiltà/barbarie; nomade/colono; europeo/indiano; libro/pistola”. Come il cittadino americano, anche il cineasta western per antonomasia struttura gli Stati Uniti che racconta nei suoi film sulle opposizioni che lo animano. Nella lotta contro l’indiano o contro i fuorilegge è sempre in corso una lotta simbolica della nascente nazione contro ciò che è selvaggio. Il western fordiano è, infatti, un cinema che parla sempre di gruppi: che si tratti di una famiglia, una legione dell’esercito o dei concittadini, il racconto del regista gravita sempre intorno a una comunità.
Mi si permetta inoltre di sottolineare come, a discapito di quanto viene spesso affermato, il “selvaggio” non è sempre ed unicamente incarnato dagli indiani e, in ogni caso, anche il rapporto tra bianchi e pellerossa non è così razzista e dicotomico come vorrebbero certi luoghi comuni. Basti pensare al rispetto che viene riservato dal regista agli indiani in Fort Apache (1948) o a come in My Darling Clementine (1946) i predoni, e nelle prime scene anche lo stesso personaggio di Henry Fonda, siano rappresentati come parte dei selvaggi nonostante la loro etnia caucasica. Non è un caso che Wyatt Earp (Henry Fonda) debba attraversare un rito di passaggio, ovvero il taglio della barba, per entrare a far parte della comunità dei coloni ed abbandonare la sua identità da nomade. È poi nel 1956 con Sentieri Selvaggi che arriva la vera svolta del cinema di Ford, ovvero il film in cui questi ritratti già chiaroscurali della realtà statunitense dell’800 si trasformano in quello che viene da larga parte della critica definito come “il crollo del mito del West”.
In Sentieri Selvaggi l’opposizione tra cultura e natura (o civiltà e barbarie) non è più equivalente al rapporto tra protagonista e selvaggio (che questo sia l’indiano o il fuorilegge). In altre parole, il soggetto che si addentra nel West, in questo film, perde il suo ruolo di civilizzatore e lo stesso West diventa altro rispetto alla grande terra di promesse e di libertà dipinta nelle pellicole precedenti del regista. La svolta fordiana è evidente nel parallelismo imbastito tra Ethan, il personaggio interpretato da John Wayne, e il capo indiano Scar. Entrambi sono infatti due facce della stessa medaglia, due personaggi forgiati dalla lotta e dal rispetto reciproco (si noti come Ethan conosca e rispetti le usanze dei Comanchi), dalla violenza e dalle regole barbare che definiscono i confini del vecchio West. Il messaggio che Ford lascia in queste immagini è chiaro: il west non è più raccontato come la terra sconfinata delle libertà, ma diventa uno spazio culturale, con delle regole, per quanto selvagge e violente, che vengono rispettate da tutti gli attori in gioco, ovvero sia da cowboy e pistoleri che da indiani e banditi. Non è un caso che Ethan, in uno dei finali più belli della storia del cinema, dopo aver completato la sua missione ed aver riportato la nipotina Debbie a casa, rimanga fuori dalla porta mentre tutti gli altri personaggi entrano. La casa è il luogo della civiltà, mentre il mondo fuori, ovvero il selvaggio West, è il mondo delle barbarie ed Ethan, così come Scar, fa parte del secondo.
È però con L’uomo che uccise Liberty Valance (definito come l’ultimo western classico) che Ford porta a compimento il suo discorso sull’America. La storia si basa in questo caso sull’opposizione tra due personaggi: da una parte il senatore Ransom Stoddard (James Stewart), uomo colto, fragile e femmineo (non a caso, in quanto cameriere, porta per buona parte del film un grembiule, indumento tipicamente femminile se valutato in relazione all’epoca e all’ambientazione) e dall’altra lo sceriffo Tom Doniphon (John Wayne), il protagonista tipico del film fordiano. Questi rappresentano due forme di autorità ben diverse: da una parte il senatore Stoddard simboleggia “la legge del libro” (la legge scritta e la cultura), dall’altra lo sceriffo rappresenta l’uomo che garantisce la legge con la violenza, ovvero la “legge della pistola”. Il primo cerca invano di istruire i cittadini, di portare il riconoscimento di un’autorità simbolica e istituzionale e non fondata sulla forza, il secondo si trova invece a reggere sulle spalle la difesa della città di cui è sceriffo con le armi. Ad accendere questo congegno magistralmente architettato è proprio la presenza del bandito Liberty Valance che, entrato in conflitto verbale con Stoddard, decide sfidarlo a duello. Stoddard, nonostante non sappia sparare e sia conscio di stare andando incontro ad una condanna a morte praticamente certa, accetta il duello. Al momento dello scontro fatidico, davanti all’intera cittadina di Shinbone, con grande stupore a cadere senza vita dopo lo scoppio dei proiettili è proprio il corpo di Liberty Valance. Scopriamo dopo poco che a colpire il bandito non è però stato Stoddard, bensì lo sceriffo che di nascosto ha colpito Liberty Valance alle spalle con un colpo di fucile, facendo così apparire la morte del bandito come ad opera del senatore. Tom Doniphon non agisce soltanto per salvare la vita a Stoddard, ma anche per permettere al senatore di acquisire la credibilità che necessita per risultare autorevole agli occhi dei cittadini e poter affermare la “legge del libro”. Gli equilibri posti in questo film evidenziano chiaramente come la visione dell’Uomo di Ford contempli una legge ed un progresso e non sia affatto schiava dell’incanto di un tempo passato di grandi libertà, o di un ingenuo mito del buon selvaggio. Il realismo della violenza portata in scena mostra il vecchio West esattamente per ciò che fu, abbandonando completamente l’idilliaco e giocoso velo della mitologia.

Il film si struttura come un lungo flashback che altro non sarebbe che il racconto di Stoddard ad un giornalista dello Shinbone Star, a distanza di anni dagli avvenimenti. L’intento del senatore qui è ovviamente quello di rendere giustizia con le sue parole alla memoria dell’ex sceriffo Doniphon, ma il giornalista, dopo aver udito l’intera vicenda, afferma che la vera storia sulla morte di Liberty Valance non sarà mai pubblicata perché “nel West la leggenda prevarrà sempre sulla realtà dei fatti”. Questi passaggi chiariscono in maniera inequivocabile la posizione di Ford in merito: il West della leggenda non è il vero West, bensì una narrazione fasulla e costruita, è soltanto la creazione di una mitologia che abbia le sembianze dell’uomo statunitense e che funga da base culturale nel racconto del proprio passato storico. In secondo luogo, è evidente come Ford veda di buon occhio e, anzi, come passaggio necessario la fine del West e la fine della legge della pistola per accedere alla legge simbolica del libro.
Ho sempre trovato curioso, a questo proposito, l’opposizione ideologica netta tra due cineasti che forse più di tutti rappresentano le due epoche più importanti del western americano, ovvero John Ford e Sam Peckimpah. È evidente da quasi ogni suo film quanto Peckimpah, certamente più crudo, nichilista e pessimista di Ford, veda le norme e le regole come semplici maschere di una sottostante ed onnipresente pulsione anarchica e violenta. In film come Mucchio Selvaggio (1969) o Patt Garrett e Billy The Kid (1973), è evidente quanto il regista veda nella violenza del selvaggio West la sincera rappresentazione di una natura umana che ancora muove, dietro le fila dei falsi valori e dei perbenismi, le fila delle azioni e delle brame di ogni individuo e di ogni società. Per Peckimpah, insomma, la violenza del selvaggio è la verità dell’essere umano, che è stata soltanto mascherata dal (metaforico) patto sociale, ovvero, anche in una formale legge del libro vi è una reale legge della pistola sottostante. In altre parole, mentre l’Uomo per Peckimpah vive in un costante stato di natura mascherato da civiltà, per Ford lo stadio del selvaggio e della legge della pistola sono passaggi che l’uomo supera e accantona con l’ingresso nella civiltà (legge del libro).
È molto interessante osservare come queste due opposte visioni del mondo e dell’Uomo siano individuabili in maniera nitida nel confronto tra due film girati dai due registi, entrambi non appartenenti al genere western ed entrambi ambientati nell’Europa anglofona: da una parte abbiamo Cane di paglia (1971) di Sam Peckimpah e dall’altra Un uomo tranquillo (1952) di John Ford.
In entrambi i film un protagonista statunitense che rigetta la violenza migra in Europa, in un caso in Cornovaglia, nell’altro in Irlanda, in entrambi i casi il mondo europeo è un mondo rurale e composto da pseudo selvaggi violenti, retrogradi e che istigano il protagonista alla violenza e, sempre in entrambi i casi, il pretesto di questa violenza è il rapporto con una donna. La differenza sta nel modo in cui, da una parte John Wayne, ex pugile che ha deciso di non utilizzare più la violenza contro nessuno a causa di un evento traumatico, dall’altra Dustin Hoffman, un matematico che non ha mai trovato contatto con la sua parte animale e violenta, reagiscono alla chiamata alla violenza. In Un uomo tranquillo, Wayne subisce continue provocazioni dal padre della sua sposa, che non vuole cedere la dote della figlia come smacco all’orgoglio maschile del protagonista. Wayne decide, dopo numerosi rifiuti, di accettare la sfida di uno scontro fisico in pubblica piazza proposta dal suocero. In Cane di paglia, invece, il protagonista, dopo diverse offese subite ad opera dei cittadini, anche queste tese a svilirne la virilità, agisce una rabbia formalmente giustificata, cioè, finalizzata ad evitare che i cittadini si facciano giustizia da soli uccidendo un uomo disabile, ma che sfocia quasi immediatamente nel suo vero movente, ovvero la vendetta. Nel caso del personaggio di Wayne, la decisione di agire la propria violenza è una scelta consapevole, presa per rendere conto del valore culturale dello scontro tra due uomini che, in quel preciso contesto, prende a tutti gli effetti la forma di un rito pubblico. Nel caso del personaggio di Hoffman è invece una violenza primordiale ad emergere, che riconnette il protagonista con le regole del selvaggio. Nella visione di Peckimpah, insomma, la violenza e lo scontro non sono agiti all’interno di coordinate e significati culturali, ma rappresentano una sola verità viscerale e profonda: l’impossibilità di superare la nostra animalità.

Entrambe le prospettive, ad onore del vero, hanno dei punti interessanti ed un loro senso, ma credo che la prospettiva di Ford porti in sé una verità molto più profonda e complessa: dopo essere entrati nel linguaggio, ovvero dopo essere entrati in un legame sociale con gli altri, non possiamo più agire o dire nulla che non prenda senso all’interno di questi parametri. Certamente la violenza è parte di noi, ma lo è in maniera molto più articolata rispetto alla violenza animale, poiché prende senso e trae le sue origini all’interno di simboli, costumi e valori. In altre parole, la nostra violenza non è violenza senza legge, ma, a tutti gli effetti, una legge della pistola.
Proprio a questo proposito credo sia interessante analizzare le opposizioni presenti ne L’uomo che uccise Liberty Valance traendo ispirazione dal modo in cui Levi-Strauss analizzava i miti, ovvero prestando attenzione al rapporto di interazione “armonica” tra le coppie di opposti. In questo film, infatti, le opposizioni non fanno riferimento soltanto ognuna a sé stessa, bensì si intrecciano formando relazioni in rapporto tra loro: il colono è il rapporto al selvaggio come la civiltà è in rapporto alla barbarie e così via.

In questo schema possiamo vedere come, infatti, riportando le opposizioni del cinema fordiano in due colonne, si possano evidenziare non solo i rapporti melodici, vale a dire tra le voci di ogni rigo (tra giardino e deserto, tra civiltà e barbarie…), ma anche rapporti armonici, ovvero analogie tra le voci di una singola colonna (giardino, civiltà, colono…).
Già ad un rapido sguardo ci si può rendere conto come il discorso del Ford di fine anni ‘50 sia perfettamente coerente: la legge del libro è dal lato della civiltà, quella della pistola dalla parte della barbarie. Il nomade (come Ethan in Sentieri Selvaggi e come quasi ogni altro eroe fordiano) è dalla parte della legge della pistola, ovvero la stessa parte dell’indiano, del selvaggio e del deserto. L’intero vecchio West, in altre parole, è in opposizione alla civiltà non nel senso che quello fosse stato di natura (ammesso che questo sia mai esistito), ma nel senso che Ford riconosce quelle regole, ovvero la legge della pistola, come barbarie. Il personaggio di Wayne in L’uomo che uccise Liberty Valance si rende conto che il West debba essere superato, che il tempo in cui è vissuto deve avere una fine e, come nella metafora freudiana del padre primordiale, vi deve essere un sacrificio per l’istituzione di una società altra.
Tom Doniphon sacrifica sé stesso perché la legge della pistola lasci spazio alla legge del libro. Spara cioè a Liberty Valance, dando modo al senatore Stoddard di avere la credibilità necessaria per istituire a Shinbone la legge del libro. La profondità insita nella messa in scena di questo gesto passa per la consapevolezza dello sceriffo di farsi ultimo uomo della legge della pistola, ovvero agire un comportamento finalizzato al superamento del selvaggio West, ma che per essere efficace deve prendere senso all’interno del frame culturale del mondo vigente, ovvero quello della legge della pistola.
Lo sceriffo, inoltre, non solo agisce un comportamento che prende senso sotto la legge della pistola per ottenere un superamento di questa stessa legge, ma addirittura infrange anche una delle regole della legge del West, ovvero il divieto di sparare alle spalle, perché questa legge divenga superata. È così che Doniphon diviene l’ultimo uomo sotto la legge della pistola ed il primo sotto la legge del libro, lasciando il vecchio West a cristallizzarsi nell’inganno del mito (il senatore Stoddard che diviene eroe) e non nella verità, lo stesso mito che ha permesso che si istituisse una legge del libro. La morte prima simbolica (perdita del potere istituzionale) e poi reale del personaggio di Wayne diviene una rappresentazione chiara di quell’eredità che Massimo Recalcati definisce “luce delle stelle morte”, ovvero una stella che illumina il tragitto del suo erede, ovvero Stoddard, senza divenire pressante sulla vita dei posteri. Dalla prospettiva dello sceriffo questo è un atto di grande lucidità, di grande altruismo, di grande sacrificio e di grande pragmatismo. Doniphon, come un padre che ha fatto ormai il suo tempo, accetta il cambiamento dei valori, l’avvento di un mondo di speranze che però non riesce a capire. Lascia, quindi, nelle generazioni future una traccia del suo passaggio, anche se invisibile per chiunque non conosca la vera versione dei fatti. Questo è forse l’ultimo insegnamento che possiamo infatti trarre da questo capolavoro: l’eredità non è immortalare sé stessi nella storia, ma lasciare un pezzo di sé, la propria luce, appunto, alle poche persone per cui si è stati davvero qualcuno di insostituibile.
Nella speranza di avervi incuriosito e, forse, interessato.
Antonioli Samuele
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